Processi mentali nel giudizio in aula: quanti sono gli errori?

Processi mentali nel giudizio in aula: quanti sono gli errori?

Quanto influiscono i processi mentali nel giudizio in aula?

Molto, a giudicare dai troppi errori giudiziari che ancora si commettono in Tribunale.

Spesso l’unico modo per discolparsi di un crimine è avere un alibi, cioè il poter dimostrare che all’accadere di un reato si era in un altro luogo.
Al contrario, uno degli elementi decisivi per un giudice, per poter “incastrare” un sospettato oltre ogni ragionevole dubbio, è la sua collocazione in un momento preciso sulla Scena di un Crimine.
Ma siamo sicuri che i giudici decidano al di là di ogni ragionevole dubbio?

Processi mentali nel giudizio: quali sono gli errori più frequenti?

Classici studi sulla costruzione della realtà e recenti ricerche sulla testimonianza concordano circa un dato che appare sorprendente.

Gli elementi determinanti al fine di dimostrare la responsabilità di un sospettato, e cioè il luogo, l’ora, i dettagli, sono proprio quelli più suscettibili di errore.
A ciò si aggiunga la teoria secondo la quale i giudici tenderebbero ad accettare come vera la storia più coerente o, per così dire “meglio raccontata”, e la prima impressione che se ne ricava non è delle migliori.

Processi mentali nel giudizio: la teoria dell’agenda setting

Se nessuno ci racconta dell’accadere di un fatto, per noi quel fatto naturalmente non esiste, almeno non nella nostra mente.

Al contrario, se invece un evento ci viene riportato esso acquista importanza.

Inoltre se lo stesso fatto ci viene riferito continuamente e da più fonti, potremmo essere indotti a sovrastimarne la frequenza e la portata.

Quando seguiamo un telegiornale o leggiamo un quotidiano, veniamo a conoscenza di eventi di cronaca che sono elencati con un determinato ordine.

Tale ordine apparentemente è il medesimo per ogni emittente.

Se poi in un certo periodo la cronaca punta spesso sugli stessi eventi, ci convinciamo che questi siano frequenti, molto più frequenti di quanto in realtà non siano.

Al di là delle possibili motivazioni politiche, qualcuno sceglie e decide:

  • l’ordine degli eventi da narrare;
  • l’importanza data a ciascuno di essi;
  • e la frequenza nel riportarli.

Così il pubblico conosce la realtà in base a ciò che gli viene raccontato e soprattutto in base a come ciò viene narrato.

Cosa dice la Teoria dell’Agenda Setting

La premessa è che ciò che ci viene raccontato si scontra e si incontra con la nostra mente.

Con questo si intende ciò che conosciamo già della realtà, le nostre convinzioni e i nostri pregiudizi.

Il risultato non è sempre obiettivo.
Allo stesso modo possiamo immaginare che un Giudice, anch’egli un essere umano, ascolti storie che gli vengono riferite ma che non conosce per diretta esperienza.

In base a ciò che ascolta però il Giudice deve prendere una decisione.
Sembra interessante far rilevare quanto segue.

Quando si percepisce un notevole aumento dei fatti di cronaca nera (cosa che al momento attuale è vero) si dovrebbero andare a leggere studi come il seguente.

Secondo uno studio effettuato da “La Repubblica”, nel periodo 2006-2007 lo spazio riservato alla cronaca nera raddoppiò sulle reti Rai e addirittura triplicò su quelle Mediaset.

Errori del giudizio nei processi mentali: lo studio sui reati 2006-2007

Nel dettaglio dello studio, l’incremento fu:

  • per il TG1 dall’11% della durata dello spazio dedicato alla cronaca nera nel 2003 al 19,4% nel 2006 fino al 23% nel 2007;
  • al TG2 si passò dal 9,7% del 2003 al 21% del 2006 fino al 25,4% nel 2007;
  • per il TG3 dall’11,5% del 2003 al 18,6% del 2007;
  • al TG4 dal 10,2% del 2003 al 20,9% del 2007;
  • poi per il TG5 dal 10,8% del 2003 al 25,7% del 2007;
  • infine, per Studio Aperto dal 12,6% del 2003 al 30,2% del 2007.

I processi mentali del giudizio ci rendono meno liberi?

Si provi a fare questo ragionamento.

Se si trasporta il discorso sui processi mentali nel giudizio in aula, la domanda provocatoria potrebbe essere è migliore a o è peggiore b?

Spieghiamo subito il ragionamento.
Se si declina il ragionamento fatto fin qui in un’aula di tribunale, c’è quasi da sperare di non essere mai incriminati.

Nonostante i sistemi giudiziari siano molto diversi a seconda del Paese di riferimento, i processi mentali nel giudizio di chi deve emettere un verdetto sono gli stessi.

Ragioniamo in maniera stereotipata e siamo influenzati da:

  • il modo di esporre i fatti;
  • e dal tipo di domande che ci vengono poste.

Purtroppo, o per fortuna, lo sanno bene gli avvocati.

Giudizio in aula: l’esperimento sui processi mentali di Thompson e Bowee

In un esperimento del 1980 condotto da Reyes Thompson e Bower, si è costruita una situazione simulata.

Si voleva indagare il comportamento delle giurie nell’emissione del verdetto.
Il fatto circa il quale i giurati “simulati” si sarebbero dovuti esprimere era il seguente:

un uomo di ritorno da una festa si scontra con un camion non avendo rispettato lo stop.

Il tasso alcolemico non viene rilevato subito ma, benché la difesa sostenga che l’uomo non era ubriaco, lo stesso viene arrestato.

Ai diversi giudici furono proposte differenti versioni, due per la difesa e due per l’accusa.

Le versioni possono essere definite forti o deboli a seconda della ricchezza dei dettagli contenuti.

Il giudizio in aula è influenzato da come si raccontano i fatti?

La versione forte dell’accusa tentò ovviamente di far apparire l’uomo completamente ubriaco.

Lo descrisse sul marciapiede barcollante mentre urta un tavolino di un bar facendo cadere a terra su un prezioso tappeto una coppa colma di frutta.

Non è difficile nemmeno per noi immaginarlo in maniera vivida.

Al contrario, la versione forte della difesa puntò sul colore scuro del camion che di notte si sarebbe visto male.

Riportò una frase pronunciata dal proprietario del camion stesso che riferiva che il colore grigio nasconde lo sporco.

Anche in questo caso non ci risulta difficile immaginare il camionista come un uomo con un mezzo scarsamente visibile e che nasconde il sudiciume. L’esperimento dimostrò che le persone alle quali fu presentata la versione forte dell’accusa accanto alla versione debole della difesa giudicarono “l’imputato” colpevole.

Al contrario di ciò che fecero i giurati ai quali fu presentata la versione forte della difesa accanto a quella debole dell’accusa.

Processi mentali nel giudizio in aula: lo sconcertante esperimento di Shafir

Probabilmente, rispetto all’esempio precedente, noi avremmo fatto lo stesso.

La domanda però è che cosa avrebbe deciso una reale giuria?
L’unico fatto che avrebbe dovuto contare era il non aver rispettato lo stop e l’eventuale rilevazione del tasso alcolemico.

Dunque il modo di presentare un evento è in grado di farci costruire una rappresentazione mentale più o meno vivida dell’evento stesso.

Questa rappresentazione poi si confronta con le nostre opinioni pregresse.

Tutto infine ci porterebbe a decidere in un senso o nell’altro.

I processi mentali del giudizio influenzano anche gli affidi dei bambini?

Ancor più sconcertante appare il risultato di un altro esperimento.

Questo esperimento mostrò come si possa modificare l’opinione su un medesimo oggetto a seconda del modo in cui viene formulata la domanda.

Shafir, nel 1993, chiese a dei finti giurati di immaginare di dover decidere dell’affidamento di un bambino a seguito della separazione dei suoi genitori.

Le informazioni che vennero date ai giurati riguardanti i genitori, che chiameremo A e B, non erano volutamente molte.
L’esperimento era infatti volto a dimostrare come, in presenza di pochi elementi, la mente umana tenda a interpretare quegli elementi per adattarli alla conoscenza che si ha sul mondo e sulle persone.

Si tenderebbe cioè a costruire delle vere e proprie storie per dare senso agli
eventi e soprattutto per comprendere le motivazioni che ne sono alla base.

Quanto sono liberi i verdetti dei Giudici in aula?

Se nella scrittura di un romanzo questo meccanismo aiuta, e se nella realtà si rivela addirittura funzionale alla sopravvivenza, in un’aula di Tribunale può risultare molto rischioso.
Shafir scoprì infatti che i giurati tendevano a scegliere lo stesso genitore:

  • sia quando veniva chiesto loro “a chi affidereste il bambino?”;
  • sia quando la domanda era nella sostanza identica ma nella forma diversa, e cioè “a chi non affidereste il bambino?”.

In particolare, il genitore che veniva in entrambi i casi indicato era B, le cui caratteristiche erano:

  • reddito medio/alto;
  • relazione molto stretta col bambino;
  • vita sociale molto attiva;
  • piccoli problemi di salute,
  • molti viaggi di lavoro.

Le caratteristiche del genitore A erano invece:

  • reddito medio;
  • rapporto col bambino accettabile;
  • vita sociale abbastanza tranquilla; salute nella media;
  • ore di lavoro nella media.

I verdetti emessi sono funzione della storia raccontata in aula?

Quale fu il ragionamento che portò ad indicare la stessa persona prima così positiva da sceglierla per l’affidamento e poi non adatta, esclusivamente a causa del modo in cui venne domandato?

Shafir interpretò i risultati affermando che quando la stessa cosa ci viene proposta in termini positivi oppure negativi, ragioniamo in modo diverso.

Tendiamo a valutare le informazioni in funzione di eventuali perdite o guadagni derivanti dalle nostre decisioni.

Dunque possiamo essere conservatori o rischiare di più verso le medesime cose.

Così, quando fu chiesto ai soggetti dell’esperimento “a chi affidereste il bambino?” essi compararono le caratteristiche positive dei due potenziali genitori ritenendo che quelle possedute da B fossero migliori.

Paradossalmente però le stesse identiche caratteristiche furono ritenute negative quando ai soggetti fu chiesto di scartare un genitore.

Dunque quando si domandò di decidere per l’affido furono comparate tra loro le caratteristiche ritenute positive, mentre quando si chiese di decidere per la negazione dell’affido furono valutate le caratteristiche ritenute negative.

Il risultato in ogni caso fu sorprendente: un verdetto ribaltato solo in funzione della formulazione della domanda.


Processi mentali del giudizio: la teoria dello story model

Quando ci troviamo di fronte a una serie numerosa di informazioni complesse, la nostra mente tende a mettere assieme queste informazioni.

Ciò serve per dar loro un senso.

Il modo migliore per dare senso a delle informazioni è usarle per costruire una storia.

La stessa tattica viene utilizzata quando l’interpretazione di questa storia deve portare a un giudizio di tipo giuridico.

Pennington & Hastie (1986) teorizzarono quanto segue.

I giudici, quando devono ricostruire un fatto per la formulazione di un verdetto, seguano una strutturazione tipica della narrazione.

Tale struttura consiste nell’interpretare i fatti stessi mettendo in relazione causale i dati a disposizione. Tale teoria è definita story model.

Come si arriva al giudizio in aula?

Consideriamo che le prove a disposizione dei giurati vengono spesso presentate:

  • non in ordine;
  • in giorni diversi;
  • narrate dalle parti con un tentativo di “abbellimento”;
  • riferite da testimoni che per definizione sono “fallibili” e che possono non riportare tutti i particolari.

Risulta chiaro come a volte, se non spesso, un giudice possa interpretare un fatto in
modo distorto.

Lo story model è stato appositamente sviluppato per spiegare come i giudici o i giurati arrivino al verdetto.

Cerchiamo quindi di capire cosa afferma questa teoria.
L’arrivo alla decisione finale attraverserebbe 3 stadi:

  • nel 1° stadio i giudici ascolterebbero numerose informazioni. Queste informazioni vengono mettono in relazione causale per dar loro senso attraverso la costruzione di un episodio, una storia. In questa fase è possibile la costruzione di diverse storie; si tratta di differenti interpretazioni della realtà, corrispondenti in sostanza alle varie versioni delle parti;
  • invece nel 2° stadio il giudice costruirebbe una rappresentazione mentale del possibile verdetto. Anche in questo caso vi può essere più di una rappresentazione. Il giudice può ipotizzare, ad esempio, che l’imputato possa essere colpevole, innocente, colpevole ma per motivi “validi” oppure in malafede, forse innocente, con tutte le possibili varianti;
  • infine nel 3° stadio infine si metterebbero a confronto le storie e i verdetti immaginati.

Processi mentali dei giudici: i verdetti esprimo una storia immaginata?

Questo momento rappresenta il nodo cruciale di tutto il processo.

È proprio ora che si deciderebbe la corrispondenza tra la storia immaginata e il giudizio espresso.

Storia e verdetto devono essere coerenti, coincidere.

Se un giudice ritiene di aver ricostruito l’evento con l’imputato responsabile del fatto a lui ascritto, non potrà decidere per un verdetto di innocenza.

Diversamente, non condannerà un uomo se la ricostruzione dei fatti lo porta a credere che l’uomo ne sia estraneo.

Proprio qui si corre il rischio maggiore: una bella storia raccontata con coerenza non necessariamente è vera.

L’inversione cronologica entra nel giudizio in aula?

C’è dunque qualche elemento certo sul quale i giudici possono fare affidamento quando devono emettere un verdetto?
Apparentemente no; e se chiedono aiuto ai testimoni le cose sembrano complicarsi ancora di più.

Comprensibile, ma rischiosa, la richiesta che un giudice fa al testimone di ricostruire un evento, collocandolo nello spazio e nel tempo e arricchendolo di dettagli.

Rischioso, perché un giudice che fosse poco esperto in psicologia della testimonianza, potrebbe non sapere che la percezione di un fatto viene influenzata da quella che è definita “inversione cronologica”.

Tale fenomeno induce nelle persone una confusione temporale.

Collocare eventi nel tempo è la cosa più difficile in aula

Si può in buona fede assicurare che un evento sia successivo alla situazione sulla quale si sta testimoniando, mentre in realtà è antecedente.

Il fatto è che collocare eventi nel tempo e poi richiamarli alla memoria
(specialmente se al loro accadere non si sapeva che si sarebbe dovuto testimoniare) è uno dei processi psicologici più influenzabili e fallibili.

Si tende oltretutto a sovrastimare la durata di un evento breve e a sottostimare la durata di un evento lungo, anche se vi è chi tende a fare il
contrario.

L’abitudine fa il resto, portandoci a non accorgerci di cambiamenti anche importanti intervenuti in luoghi o situazioni alle quali siamo molto abituati.

Per questi motivi, che tenti di farlo da sé o che chieda aiuto ai testimoni, un giudice ha sì a disposizione tanti elementi, ma nel momento in cui formula un verdetto dovrebbe conoscere profondamente tutti questi studi.

Quanto siamo in grado di stimare un evento? Pochissimo

Altri studi che dovrebbe conoscere sono quelli che riguardano le euristiche, cioè le strategie cognitive che tutti noi utilizziamo quotidianamente.
Facciamo un semplice esempio: se chiedessimo al lettore di esprimersi circa la frequenza, a suo avviso, dei divorzi nel nostro paese, probabilmente avremmo due possibili risposte.

Il lettore che avesse nella sua cerchia di conoscenze diverse coppie separate sarebbe indotto a credere che il fenomeno divorzio rappresenti un dato forte. Diversamente il lettore che avesse esperienza di coppie felicemente sposate tenderebbe a dire che “no, in realtà i matrimoni funzionano”.

Per quanto numerose possano essere le nostre conoscenze, però, certamente non
arriverebbero a costituire un campione statisticamente significativo.

Le euristiche del pensiero tra i processi mentali del giudizio in aula

Dunque il nostro ragionamento rappresenterebbe proprio un’euristica, nello specifico euristica della disponibilità.

Si tratta della tendenza a sovrastimare la frequenza di informazioni che in
realtà frequenti non sono, solo per il fatto che ci vengono più facilmente alla mente, cioè che sono appunto disponibili.
Cosa potrebbe allora decidere un giudice nel caso in cui, ad esempio, l’imputato di un furto fosse un extracomunitario e l’esperienza limitata del giudice stesso avesse incontrato diversi extracomunitari colpevoli in passato?

Le 3 C delle euristiche: Coerente, Credibile, Completa

Sono questi 3 elementi che determinano la plausibilità di una storia.

Se ad un giudice viene presentata una ricostruzione dei fatti che rispetti le 3C, cioè

  • se il fatto non contiene contraddizioni;
  • ancora se vi sono corrispondenze tra ciò che viene raccontato e ciò che accade
    normalmente;
  • e infine se vi sono molte prove disponibili,

il lavoro del giudice è facilitato.

Però il problema insorge laddove le informazioni sono poche e confuse.

Tuttavia il verdetto va emesso, e un giudice può emetterne uno sbagliato, anche se inconsapevolmente e in buona fede.

Ad esempio, la credibilità di una storia potrebbe venir confusa con la credibilità della fonte.

Spesso tendiamo a dar credito più alla persona che ci narra un evento che alla credibilità dell’evento stesso.

Il fatto che uno stimato cittadino della comunità giuri che un certo fatto si sia svolto in un determinato modo può indurci a credere che non sia possibile che stia mentendo.

L’effetto alone nei processi mentali del giudizio

Si tratta del cosiddetto errore del giudizio intuitivo, nella fattispecie dell’”effetto alone”.

È la tendenza a giudicare una persona (in positivo ma anche in negativo) sulla base di altre qualità.

“È così ben educato, non può essere stato lui!”, o al contrario “è un drogato, chi altri avrebbe potuto compiere quella rapina?”.
Su queste caratteristiche dell’animo umano fanno leva inconsapevolmente, ma per lo più appositamente, le argomentazioni degli avvocati.

Nelle aule di Tribunale si cerca, a volte in modo teatrale, di personalizzare la storia dei propri assistiti.

Il cliente racconta al proprio avvocato una storia.

Poi l’avvocato rielabora questa storia per renderla utile in aula.

Dopodiché l’avvocato narra questa storia al giudice, e la storia si incontra e si scontra con una storia del tutto diversa, che è quella della parte opposta.
Nel nostro paese vige il cosiddetto sistema di Civil Law, tipico anche dei paesi dell’America Latina.

Tale sistema prevede una massiccia codificazione scritta per cui, a differenza della
maggior parte dei paesi di lingua inglese nei quali è presente un sistema detto di Common Law, sono le leggi a “decidere”.

La narrazione di una storia entra nel giudizio in aula?

Nel nostro paese il giudice ha il compito di sorvegliare il corretto svolgimento del processo, dando ad entrambe le parti la possibilità di portare prove a loro favore o a discapito dell’altra parte.
Gli attori di tale processo però sono tutti esseri umani, e nel momento in cui le prove dovessero essere deboli, e nella necessità di arrivare comunque ad un esito, i meccanismi decisionali sono uguali per tutti a prescindere dal sistema giuridico vigente.
La narrazione in tribunale serve a:

  • far conoscere l’imputato;
  • familiarizzare con lui;
  • dargli un volto umano;
  • generare dubbi sullo svolgimento dei fatti;
  • stimolare i processi di attribuzione della responsabilità e della colpa.

Secondo Kelley (1967, 1972), uno dei modi attraverso i quali siamo portati ad attribuire la responsabilità di un’azione a qualcuno si basa sul modello cosiddetto ANOVA.

Processi mentali nella costruzione del giudizio: i Giudici sono imparziali?

Diamo l’esempio di una persona sorpresa a rubare.

Per decidere il grado di responsabilità di questo individuo noi potremmo effettuare delle considerazioni immediate e non del tutto consapevoli che si basano sulla nostra pregressa conoscenza del mondo.

Ad esempio possiamo immediatamente collocare quella persona all’interno di un gruppo etnico, sociale o culturale, nel quale siamo convinti che il furto sia un
atto “normale”.

Oppure possiamo considerare che la persona poteva trovarsi in difficoltà economiche tali che il furto, a maggior ragione se riguarda generi di prima necessità, sia stato quasi inevitabile.

In presenza di tutti questi ragionamenti possiamo decidere che in fondo
l’individuo non abbia una totale responsabilità nell’accaduto.

Diversamente, se la persona non ha una motivazione socialmente considerata come “utile o necessaria”, se il suo gruppo di appartenenza non viene ritenuto solito delinquere, la responsabilità potrebbe essere attribuita in maniera esclusiva alla decisione volontaria di delinquere.
Ciascuno di noi, e i giudici per primi, ha una propria idea su ciò che è giusto o sbagliato, sul valore che deve avere la pena e su quanto siamo liberi di decidere riguardo le nostre azioni.
L’auspicio è che nel momento in cui si varca un’aula di tribunale chi deve giudicare si vesta con la toga dell’imparzialità e si spogli degli abiti del pregiudizio.

Fonti utilizzate

Courtney, S. (2007). Il potere del sapere inconscio, trad. da Unconscious activation of the cognitive control system in the human prefronatl cortex, in Lau & Passingham. The journal of neuroscience,

Di Donato, F., La costruzione giudiziaria del fatto. Dottorato in Filosofia del diritto, diritti dell’Uomo e della Libertà religiosa.

Gambetti, Nori, Bensi, Strazzari, Giusberti, (2007). Ragionamento e giustizia: analisi di un procedimento penale. Psychofenia – vol. x, n. 16

Palermo, G., Mastronardi, V.M., (2005). Il Profilo Criminologico. Giuffrè editore.


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